Preferisce piuttosto rendere conto delle circostanze, del contesto, mettere ciò che precede e ciò che segue al centro della sua riflessione.
Le sue fotografie non mostrano il conflitto, la battaglia, l’attraversamento del confine, in altri termini il momento culminante, ma il mondo che segue la nascita e la catastrofe.
L’artista è estremamente determinato a rilanciare la fotografia documentaria, facendola uscire dal vicolo cieco in cui è stata rinchiusa. RICHARD MOSSE
Vuole sovvertire le convenzionali narrazioni mediatiche attraverso nuove tecnologie, spesso di derivazione militare, proprio per scardinare i criteri rappresentativi della fotografia di guerra”, spiega il curatore Urs Stahel.
I primi lavori (MAST.Gallery) – Richard Mosse inizia a occuparsi di fotografia nei primi anni 2000, mentre termina gli studi universitari. RICHARD MOSSE
I suoi primi lavori scattati in Bosnia, in Kosovo, nella Striscia di Gaza, lungo la frontiera fra Messico e Stati Uniti sono caratterizzati dall’assenza quasi totale di figure umane. RICHARD MOSSE
Solo nelle immagini che compongono la serie Breach (2009), incentrata sull’occupazione dei palazzi imperiali di Saddam Hussein in Iraq da parte dell’esercito americano, sono presenti personaggi in azione.
Questi primi lavori documentano le zone di guerra dopo gli eventi, non mostrano il conflitto, la battaglia, l’attraversamento del confine, ma il mondo che segue la catastrofe. Immagini emblematiche di distruzione, sconfitta e collasso dei sistemi: l’aftermath photography, la fotografia dell’indomani. RICHARD MOSSE
Infra (MAST.Gallery) e The Enclave (Livello 0) – Tra il 2010 e il 2015, prima per Infra e poi per The Enclave, complessa videoinstallazione in sei parti sullo stesso tema, Richard Mosse si reca nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo, nella regione del Nord Kivu, dove viene estratto il coltan, un minerale altamente tossico da cui si ricava il tantalio, materiale che trova largo impiego nell’industria elettronica e che è presente in tutti i nostri smartphone.
Il Congo, ricco di risorse minerarie, una delle aree più ricche dell’intero continente africano, è segnato da continue guerre e disastri umanitari senza precedenti: dopo il genocidio in Ruanda del 1994 le milizie ribelli stabilitesi nella Repubblica democratica del Congo non hanno mai smesso di alimentare nuove ondate di violenza.
Per i suoi scatti in queste zone devastate Mosse ha scelto Kodak Aerochrome, una pellicola da ricognizione militare sensibile ai raggi infrarossi, ormai fuori produzione, messa a punto per localizzare i soggetti mimetizzati.
Negli scatti di Infra, la pellicola registra la clorofilla presente nella vegetazione e “rende visibile l’invisibile”, con il risultato che la lussureggiante foresta pluviale congolese viene trasfigurata in uno splendido paesaggio surreale dai toni del rosa e del rosso.
In Infra sono fotografati paesaggi maestosi, scene con ribelli, civili e militari, le capanne in cui la popolazione, sempre in fuga, trova momentaneo riparo da un perenne conflitto combattuto con machete e fucili. Con questa serie e questa tecnologia, Richard Mosse vuole scardinare i criteri rappresentativi della fotografia di guerra.
Con l’imponente videoinstallazione in sei parti The Enclave, progetto gemello di Infra, Richard Mosse svela il contrasto tra la magnifica natura della foresta della Repubblica Democratica del Congo e la violenza dei soldati dell’esercito e dei ribelli.
Tra l’erba alta e nella rigogliosa boscaglia si susseguono azioni militari, addestramenti e scontri tra i combattenti. I rumori, al pari delle immagini, sono intensi e aggressivi, quasi dolorosi, dopo la carrellata della telecamera sui soldati uccisi.
I suoni diventano poi melodie e lasciano spazio ad un paesaggio ridente, aperto e calmo. Il fotografo e regista, accompagnato dall’operatore Trevor Tweeten e dal compositore Ben Frost, ha realizzato The Enclave per il Padiglione Irlandese alla 55° edizione della Biennale di Venezia nel 2013, ispirandosi al celebre romanzo Cuore di tenebra di Joseph Conrad.
Heat Maps (MAST.Gallery Foyer) e Incoming (Livello 0) – Dal 2014 al 2018 Mosse si è concentrato sulla migrazione di massa e sulle tensioni causate dalla dicotomia tra apertura e chiusura dei confini, tra compassione e rifiuto, cultura dell’accoglienza e rimpatrio.
Mosse si reca nei campi profughi Skaramagas in Grecia, Tel Sarhoun e Arsal a nord della valle della Beqa’ in Libano, i campi di Nizip I e Nizip II nella provincia di Gaziantep in Turchia, il campo profughi nell’area dell’ex aeroporto di Tempelhof a Berlino e molti altri.
Per Heat Maps e la video installazione Incoming, Mosse impiega una termocamera in grado di registrare le differenze di calore nell’intervallo degli infrarossi: invece di immortalare i riflessi della luce, registra le cosiddette “heat maps”, le mappe termiche.
Si tratta di una tecnica militare nota sin dalla guerra di Corea che consente di “vedere” le figure umane fino a una distanza di trenta chilometri, di giorno come di notte.
Le immagini sono apparentemente nitide, precise e ricche di contrasto.
A un esame più attento, invece, non si riescono a distinguere i dettagli ma solo astrazioni: persone e oggetti sono riconoscibili solo come tipologie, nei loro movimenti o nei contorni, ma non nella loro individualità e unicità.
Incoming (2017) è un’installazione audiovisiva divisa in tre parti che utilizza la stessa tecnologia impiegata per la serie fotografica Heat Maps, la termografia a infrarosso. Richard Mosse, che ne è il regista e produttore, e il suo team – il direttore della fotografia Trevor Tweeten e il compositore e sound designer Ben Frost – hanno lavorato su tre scenari: nella prima parte, girata su una portaerei, sono ripresi i preparativi per il decollo di jet militari impegnati in operazioni di controllo dei cieli del Mediterraneo.
Nella seconda parte, i protagonisti sono invece i migranti in arrivo su barconi sovraffollati, persone esauste e spesso ferite, che attendono soccorsi e, in alcuni casi, il riconoscimento post mortem.
Infine, nella terza parte, i migranti sono alloggiati nei campi profughi, tra tende e capannoni, ripresi nella loro nuova e forzata quotidianità, bloccati nell’attesa di riprendere il loro lungo viaggio di speranza verso l’Europa centrale.
Per produrre il video wall del 2017 Grid (Moria), Richard Mosse si è recato più volte nell’arco di due anni nell’omonimo campo profughi sull’isola greca di Lesbo, un campo noto per le sue pessime condizioni.
Le riprese sono state effettuate con termografia ad infrarosso (heat maps) e l’opera è costituita da 16 schermi che propongono lo stesso spezzone a diversi intervalli.